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Non una storia, ma mille. Raccontate attraverso parole
silenziose. O gridate. Dietro un insieme di lettere, il ricordo di ferite che
ancora sanguinano. Sanno di pianto e di disperazione. L’assurdità dell’uomo che
uccide l’uomo è racchiusa in una manciata di termini. Frammenti di uno specchio
in frantumi. Quello specchio è la vita stessa, provata da attentati continui
che non le hanno lasciato scampo.
Figuren erano le «marionette».
Non quelle che con cui giocano i bambini. I nazisti chiamavano così i morti da
trascinare via. Con Kanada si
indicava il reparto dove venivano ammassati gli abiti. Accostamento fra un Paese
leggendariamente ricco e il fatto che nei vestiti fossero a volte nascosti «piccoli
tesori».
Sono le parole dei lager. Spine. Coltelli affilati che
tagliano fragili pezzi di vetro. La tragedia della deportazione e dello
sterminio nei campi di concentramento nazisti scorre lenta davanti agli occhi di
chi la racconta e di chi la legge. Mancano i tasselli che danno senso al dolore.
Non sono mai esistiti. Eppure il dolore c’è stato. E c’è ancora. Ricordarlo
serve a non dimenticare. E a non ripetere.
Leoncarlo Settimelli ha raccolto «Le parole dei lager» nelle
pagine di un libro. Nero su bianco. Una sorta di dizionario europeo che diventa
testimonianza di storie vissute e di orrori che non possono essere più
cancellati. Ogni termine strappa alla memoria dei deportati istanti di
sofferenza. Non semplici spiegazioni, ma racconti e ricordi dei sopravvissuti
allo sterminio nazista.
L’autore traccia un panorama europeo del sostegno dato alla
Shoah dai fascismi nazionali, dall’Ungheria alla Croazia, dall’Olanda alla
Lituania. Scrive di aziende che hanno usufruito del «lavoro schiavo» di milioni
di deportati. Settimelli sostiene, infatti, che odio verso l’ebraismo e
soluzione finale sono andati di pari passo con lo sfruttamento di altri milioni
di individui il cui costo era nullo.