mercoledì 27 gennaio 2016

Le parole dei lager

di Anna Maria Colonna
terrenomadi@gmail.com

Non una storia, ma mille. Raccontate attraverso parole silenziose. O gridate. Dietro un insieme di lettere, il ricordo di ferite che ancora sanguinano. Sanno di pianto e di disperazione. L’assurdità dell’uomo che uccide l’uomo è racchiusa in una manciata di termini. Frammenti di uno specchio in frantumi. Quello specchio è la vita stessa, provata da attentati continui che non le hanno lasciato scampo.

Figuren erano le «marionette». Non quelle che con cui giocano i bambini. I nazisti chiamavano così i morti da trascinare via. Con Kanada si indicava il reparto dove venivano ammassati gli abiti. Accostamento fra un Paese leggendariamente ricco e il fatto che nei vestiti fossero a volte nascosti «piccoli tesori».

Sono le parole dei lager. Spine. Coltelli affilati che tagliano fragili pezzi di vetro. La tragedia della deportazione e dello sterminio nei campi di concentramento nazisti scorre lenta davanti agli occhi di chi la racconta e di chi la legge. Mancano i tasselli che danno senso al dolore. Non sono mai esistiti. Eppure il dolore c’è stato. E c’è ancora. Ricordarlo serve a non dimenticare. E a non ripetere.

Leoncarlo Settimelli ha raccolto «Le parole dei lager» nelle pagine di un libro. Nero su bianco. Una sorta di dizionario europeo che diventa testimonianza di storie vissute e di orrori che non possono essere più cancellati. Ogni termine strappa alla memoria dei deportati istanti di sofferenza. Non semplici spiegazioni, ma racconti e ricordi dei sopravvissuti allo sterminio nazista.

L’autore traccia un panorama europeo del sostegno dato alla Shoah dai fascismi nazionali, dall’Ungheria alla Croazia, dall’Olanda alla Lituania. Scrive di aziende che hanno usufruito del «lavoro schiavo» di milioni di deportati. Settimelli sostiene, infatti, che odio verso l’ebraismo e soluzione finale sono andati di pari passo con lo sfruttamento di altri milioni di individui il cui costo era nullo.

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