È così difficile il ritorno dall’Africa! Perché, inevitabilmente, una parte di te resta lì, negli spazi sconfinati dell’altopiano sabbioso Batekè, in Gabon, al confine con il Congo, con i suoi termitai imponenti come sculture, nell’asfissiante e claustrofobica foresta pluviale immersa nei suoni eterni della natura. Nell’incessante ed instancabile scorrere delle acque del fiume Ogoouè attraversato dalle piroghe e dai lunghissimi e dondolanti ponti di liane, nella polvere rossa delle strade che tagliano i villaggi fatti di fango e lamiere, dove il silenzio è rotto dal canto dei galli e dagli schiamazzi di bimbi spensierati che giocano liberi.
Non riesco a spiegare cos’è quel senso di nostalgia che si prova al ritorno dall’Africa… nostalgia dei silenzi della notte, quando i grilli scandiscono il tempo incessantemente, quando il suono dei tamburi, le danze e i canti tribali uditi in lontananza timidamente cercano di rompere quel silenzio.
È così difficile il ritorno dall’Africa, quando la sera, alzando lo sguardo al cielo, lo vedevi così diverso dal cielo italiano. Non trovavi Orione, la Stella polare, il Carro e l’Orsa minore, ma la Croce del Sud, Alfa e Beta, la Nube di Magellano e il Centauro. Qui la via lattea è una striscia luminosissima e intrisa di stelle. È così difficile il ritorno dall’Africa! Perché i coloratissimi abiti delle mamà con i bambini legati dietro, in spalla, sono sostituiti da abiti griffati e da passeggini tecnologici. Lì tutti ti sorridono e ti salutano nonostante sia tu il diverso per colore della pelle e abbigliamento, invece di ignorarti nel vorticoso rumore dei nostri ritmi lavorativi.
È così difficile il ritorno dall’Africa! Perché ti accorgi che, quando torni a casa, hai l’acqua corrente, l’energia elettrica, la fogna e tutte le comodità possibili. E, nonostante ciò, vedi volti tristi, gente stressata che si lamenta in continuazione di una crisi che è solo del superfluo, mentre là la gente cerca di andare avanti con serenità e forza di volontà. Una forza che il nostro cosiddetto «mondo civilizzato» si sogna, per come è immerso nell’ozio e nelle ricchezze materiali. La forza instancabile delle donne curve con chili e chili di legna nei cesti, nonostante la malaria, la filaria e la gotta, mentre tornano dalle piantagioni senza non essere passate prima dalla chiesetta a pregare… sì, perché lì c’è anche una fede incredibile.
Le chiese
sono gremite di gente che, con ritmi, canti e danze loda il Signore e lo
ringrazia per quel poco che possiede, i missionari diventano anche
medici, meccanici, autisti, postini, falegnami e muratori, prima di
essere preti. Qui, nella culla del cristianesimo, le chiese risultano
sempre più vuote, frequentate da poca gente che, con fare fariseo, si
ritiene eletta, i preti sono rinchiusi nelle loro sagrestie a fare i
burocrati, invece di occuparsi delle anime, irrigiditi dai formalismi
delle liturgie. Qui, nella culla del cristianesimo, il battito delle mani, il ritmo di un djambè o il
suono di una chitarra è liquidato come «non liturgico», mentre lì tutto è così spontaneo e la liturgia domenicale viene vissuta come una festa.
Io
non so se tutto ciò si chiami «mal d’Africa», ma ora che sono tornato
nella mia dimensione - come se quel volo dell’Ethiopian Airlines fosse
una macchina del tempo, uno Shuttle che mi ha portato in un altro mondo - penso che l’Africa sia qui, nell’Europa civilizzata, nell’Italia dei
santi, poeti e navigatori, nella mia Altamura (Ba). Sì, proprio nella mia
Altamura, la città del pane che, però, non è davvero per tutti, dove non
mancano casi di povertà, dove gli immigrati si dice siano integrati ed
invece non lo sono, dove la piaga delle dipendenze dilaga, dove vigono il
malaffare, la corruzione e l’illegalità tipiche di un’Italia che non
vuole cambiare. Dove ciò che conta non è l’essere ma l’apparire, il far
carriera a tutti i costi a discapito dei più deboli.
L’Africa è nelle nostre coscienze, dove le logiche perverse del profitto ci hanno trasformati nei colonizzatori del terzo millennio, con la corsa al litio e al coltan che fanno funzionare bene i nostri telefonini e un po' meno le democrazie degli Stati che possiedono questi minerali. Il «mal d’Africa» forse è anche desiderio di rivedere i volti di Sebastian, di Chopin e di Guldas, i volti di Cincia, di Venice e di Noè, di Michael, di Hance, di Eric e di Boss. Il desiderio di rivedere tutti quei bambini un giorno cresciuti e di riascoltare le loro storie, storie di uomini che si trasformano in pantere, storie di cacce incredibili e avventurose, storie di gorilla, di elefanti, di antilopi e gazzelle, storie raccontate attorno al crepitio di un fuoco in piena foresta, nel buio della notte. Qui i contorni dei loro visi scuri si perdono nella penombra, lasciando solo gli occhi e i sorrisi in evidenza. Storie e miti che si perdono nella notte dei tempi di un continente per molti versi ancora sconosciuto all’Occidente.
Oggi posso dire che una parte di me è rimasta lì, in Gabon, nell’Africa profonda delle foreste e dei corsi d’acqua, nei suoni e nei profumi della natura più incontaminata. É come se avessi piantato un seme i cui frutti, però, vorrei che nascessero qui, nella mia terra. In Africa ho riscoperto quei valori che noi abbiamo perso, ho riscoperto la bellezza di un sorriso sincero, la spontaneità di un abbraccio, l’emozione che si prova nell’ascoltare un anziano, la gioia nel vedere bambini spensierati e felici che giocano con quel poco che possiedono.
Io tutto ciò vorrei riportarlo qui e testimoniarlo… questa sarà la mia missione.
Nicola Moramarco
Le fotografie sono state scattate dall'autore del reportage.
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