giovedì 3 luglio 2014

La strada sbagliata

di Anna Maria Colonna
terrenomadi@gmail.com


Peter Moore
Si definisce «un vagabondo abbastanza fortunato da riuscire a sostenere con la scrittura la sua insaziabile voglia di viaggi». Il giornalista australiano Peter Moore di strada ne ha già fatta tanta. L’amore folle per viaggi e scrittura può essere curato in un solo modo. Prendendo lo zaino e mettendosi in cammino. Anche quando le tasche sono vuote. Come? Moore lo spiega nel suo libro La strada sbagliata.



Partenza, Londra. Destinazione, Sidney. Ma senza mai salire su un aereo. Percorrere distanze significa semplicemente riempirle. Oppure trasformare l’itinerario intrapreso in una curiosa e divertente avventura. Lo scrittore australiano decide di tornare a casa via terra. Una scelta obbligata, dal momento che non ha abbastanza soldi per «volare». Attraversa Europa, Medio Oriente e Asia. Incrocia volti e tradizioni differenti, si imbatte in situazioni inaspettate e, a volte, anche inquietanti. Con distanze così lunghe è facile sbagliare strada. Ma le difficoltà vengono ricompensate dall’esperienza affrontata. «Se non fossi stato senza il becco di un quattrino - scrive Moore nel suo romanzo on the road - sono sicuro che mi sarei voltato, pronto a ripartire in quel preciso istante».



Lo scrittore viaggia in autobus da Londra a Praga, poi prosegue in treno verso Budapest e, con una svolta improvvisa e irrazionale, si dirige verso la ex Jugoslavia e l’Albania. In otto mesi attraversa Iran, Afghanistan, India e Thailandia. Approda a Singapore e arriva, infine, nella sua terra natia, l’Australia.



In fondo, solo così Moore può osservare per scrivere. Il suo viaggio si sarebbe ridotto ad una manciata di ore da trascorrere in aereo. E, invece, è diventato itinerario di scoperta. Curiosa e non proprio rosea la descrizione che il giornalista fa dei turisti italiani. «Altrettanto numerosi, passavano urlando e discutendo in modo concitato come se Praga fosse il loro manicomio privato. Se c’è una cosa che ho imparato durante i miei viaggi è questa: non puoi portare gli italiani da nessuna parte. Sul ponte Carlo, uno di loro si mise disteso per fare una fotografia e nel giro di un minuto tutti lo imitarono. Fuori dalla basilica di San Giorgio, improvvisarono una partita di pallavolo. Al castello, un gruppo di turisti italiani oltrepassò le transenne che trattenevano la folla per andare a vedere il cambio della guardia. Avanzavano allegramente, sorridendo e salutando, convinti che la folla si fosse radunata per loro. Ma la cosa che più mi fa innervosire è che fanno tutte queste cose con stile».

Definito dal Sydney Morning Herald il Jim Carrey della narrativa di viaggio australiana, Peter Moore parte da una convinzione. «Sono geloso degli hippies: gli hippies - scrive - hanno avuto il meglio in fatto di musica, di droghe e di sesso, ma, soprattutto, hanno avuto il meglio in fatto di viaggi». E aggiunge: «Chiedete a qualsiasi hippy stagionato e vi diranno che il viaggio più bello fu quello via terra da Londra all’Oriente, intorno al 1967. Potevi prendere con te una ragazza – diavolo, potevi prendertene anche due o tre, se ti andava – e partire per una lunga, tranquilla odissea in India, Nepal e Thailandia e in altri posti che la gente aveva visto solo su National Geographic. Quasi trent’anni dopo, volevo vedere se quel viaggio era ancora fattibile. Avrei lasciato il mio lavoro di copywriter in un’agenzia di pubblicità e accantonato per un po’ i miei impegni. La scelta di tornare a casa via terra era un modo per sballarmi e arricchire la mia vita».



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