domenica 30 settembre 2012

Intervista a Marco Cavallini: dall’Italia al mondo intero


Marco Cavallini
Ha 48 anni, è nato a Fidenza (Pr) e vive nel parmigiano, a Tabiano Bagni. Marco Cavallini nutre una grande passione per il viaggio. In collaborazione con l’associazione provinciale “Le Giraffe”, organizza reportage e workshop di fotografia sociale. Si occupa di creazione e gestione di siti web legati al viaggio e al commercio equosolidale. Una vita spesa a vagabondare da un capo all’altro del mondo, immortalando con il flash la sua originale esperienza. Terre Nomadi lo ha intervistato.

Come e quando nasce la sua passione per il viaggio? 
Da bambino, quando scorrazzavo per l’Italia con la mia famiglia in roulotte. Poi è stata la volta di Edimburgo, qualche viaggetto “europeo” con gli amici, finché, più o meno per caso, sono finito in Yemen con un gruppo organizzato. Lì, guardando gli adesivi sulla porta di un funduq, ho conosciuto “Avventure nel Mondo” e, dopo due anni e mezzo, ne sono diventato il coordinatore. Con loro ho organizzato una cinquantina di viaggi meravigliosi. Spero di pianificarne altri. Li alterno con viaggi in solitaria. Mi sono concesso quattro visite in Kurdistan turco come osservatore in occasione del Newroz, l’importante capodanno kurdo.

Che cosa rappresenta per lei il viaggio? 
Viaggio è spesso sinonimo di inquietudine e di ricerca. Sicuramente è un momento di realizzazione personale e non di semplice evasione. Mi piace confrontarmi con culture e usanze lontane, mettendo in discussione anche me stesso. C’è sempre una base di fuga dalla routine e dal proprio mondo, ma questo lo si fa ormai tutti i giorni per sopravvivere. I primi viaggi nascono dall’irrequietezza, poi il viaggio diventa una sorta di “droga” di cui ogni tanto bisogna far uso per ritrovare emozioni.

Qual è stato il suo primo viaggio?
Il primo vero viaggio è stato in Scozia. Mi sono fermato per tre settimane con la mia famiglia a Edimburgo. Il primo extraeuropeo, invece, in Canada e poi in Yemen.

Quali sono state le esperienze di viaggio che l’hanno colpita di più?  
Viene sempre in mente l’ultimo viaggio. Poi, scandagliando fra i ricordi, si pensa a tanti episodi, aneddoti e incontri che hanno contribuito a costruire la mia coscienza e le mie idee per il futuro. Ricordo il santone tedesco che viveva in una grotta vicino Gwalior, in India, accudito da quaranta fedeli del luogo. Ricordo il settantenne francese che mi chiese informazioni a una fermata dei pullman di linea in Guatemala. Mi disse di essere rimasto vedovo da due anni e che da allora non voleva rimanere a casa da solo. Da un anno aveva cominciato un giro del mondo senza tempi di riferimento, se non quelli normali del ciclo vitale. Importantissimi alcuni incontri nelle zone kurde. Ho conosciuto gente obbligata ad andarsene di casa per essere deportata in posti invivibili o persone che sopportano situazioni assurde pur di non abbandonare la terra dove sono nate. Ho cominciato a viaggiare senza macchina fotografica, poi mi sono appassionato profondamente a questa arte, ma gli incontri restano i momenti più importanti ed arricchenti di qualunque viaggio.

Che cosa le insegna ogni nuovo viaggio?  
Sicuramente mi insegna sempre qualcosa su me stesso. Non è un luogo comune sostenere che viaggiare apre la mente e rende più elastici. Mi ha reso più “intollerante” verso l’ignoranza. Mi fa rabbia sentire certi discorsi sugli immigrati farciti di credenze popolari. I libri di Tiziano Terzani mi hanno fatto capire cose che avevo visto e che senza una spiegazione non ero riuscito a capire.

C’è un posto in cui fermerebbe il suo “peregrinare”?  
È troppo forte la curiosità di vedere sempre posti nuovi. Ho visitato tantissimi paesaggi meravigliosi, ma nessuno in cui mi fermerei a vivere. Per questo sogno la zona collinare in cui sono stato per 14 anni, tra Fidenza e Salsomaggiore. Mi ero innamorato del Madagascar, ma, una volta approfonditane la conoscenza con tre viaggi e tante chiacchierate con gli occidentali che ci abitavano, decisi di abbandonare l’idea. Dopo dieci anni dall’ultima visita, sta rinascendo la voglia di tornarci.

Il blog di Marco Cavallini si può consultare cliccando sul link http://www.marcocavallini.it/ 

Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it  

Seguono alcune fotografie scattate da Marco Cavallini durante i suoi tanti viaggi.

Nord Vietnam - Lavoro in risaia
Nord Vietnam - Sorriso






Nord Vietnam - strada verso Sapa 













Mali, Baobab

                                                                                        




                                                                                                                              

                Mali, Djenné, la scuola coranica                     


giovedì 27 settembre 2012

Me ne vado in Irlanda. Intervista ad un giovane che ha lasciato l'Italia per cercare se stesso

Fabio Castano
Un anno lontano da casa. Dalla Lombardia all'Irlanda per cercare se stesso. Fabio Castano, 29 anni, racconta la sua esperienza di viaggio a Terre Nomadi.


Chi è Fabio Castano?
Ho 29 anni ed una laurea in Comunicazione politica e sociale conseguita all’Università statale di Milano. Sono nato a Gallarate, in provincia di Varese. Attualmente lavoro come educatore in un centro ricreativo per adolescenti, ma ne ho già combinate di tutti i colori: ho fatto il giornalista per un paio di anni per «La Provincia di Varese», ho collaborato con la rivista on line di viaggi «Il reporter», ho lavorato nella comunicazione creando alcune campagne pubblicitarie. Ho viaggiato, adoro viaggiare, e adoro scrivere. La mia prima raccolta di poesie si intitola «Luce nel silenzio» (http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=761813). Ma scrivo di tutto: articoli, fiabe, racconti. Il canale della scrittura è quello privilegiato nell’espressione della mia anima. Negli ultimi anni, poi, il viaggio più bello, e più difficile, è stato quello ancora in corso della ricerca di me, il viaggio della conoscenza e della consapevolezza. Il viaggio che si fa andando dentro di sé, in modo che l’andare fuori, poi, sia ancora più ricco e grandioso. Ringrazio tutte le persone che mi hanno accompagnato fin qui, quelle che mi sono state o mi sono vicine.

Quando sei partito per l'Irlanda? Per quanto tempo sei rimasto lì?
Ho messo piede in quella bellissima terra il 9 settembre del 2007. Ricordo la data perfettamente, ricordo l’istante in cui sono sceso dall’aereo e ho mosso i primi passi, come se stessi imparando a camminare. E me ne sono andato un anno dopo circa, alla fine di agosto del 2008.
 

Come mai hai deciso di lasciare l'Italia e di partire? Che cosa cercavi?
Banale dire che cercavo me stesso? Banale sì, ma è così. A posteriori, con un po’ più di lucidità, posso anche affermare che allora la scelta non è stata quella di partire, ma quella di fuggire da qui. Fuggire dai dolori, dalle tristezze, dalla non conoscenza di sé. E’ più facile, a volte, andarsene e non affrontare il proprio mondo interiore, piuttosto che guardare il labirinto complicato e incasinato che abbiamo tutti dentro. In ogni caso il fuggire mi ha permesso di conoscere un paese unico, meraviglioso, ospitale e con delle bellezze naturali da mozzare il fiato. Quindi, se dovessi consigliare a qualcuno una bella fuga, direi proprio di andare in Irlanda.

Come era la tua vita in Irlanda?
La mia vita in Irlanda era così banale da essere meravigliosa. E una delle magie che ti permette di intuire il vivere in un paese straniero è che ogni azione, anche la più semplice, diventa una conquista straordinaria. Io, ad esempio, il primo mese ho vissuto in una famiglia irlandese. Poi ho trovato lavoro come cameriere in un fast food. E fare il cameriere in una lingua non tua, dopo le grandi difficoltà iniziali a capire l’accento irlandese, mi faceva sentire felice per ogni ordinazione che prendevo, per ogni cheeseburger che riuscivo a servire. Ho ancora il capellino stile anni '50 che ci facevano mettere al ristorante, per intenderci sullo stile del locale Arnold di Happy days! Magnifico!

E le tue giornate?
Quando non lavoravo, giravo molto per la mia città irlandese, Bray. Perdermi a zonzo in un posto nuovo era stupefacente. Ti guardavi intorno e imparavi tantissime cose, come se fossi stato catapultato in un mondo nuovo. Fare la spesa era imparare, andare in un pub era imparare, chiedere informazioni era imparare. Insomma, tutte le cose che nella nostra routine viviamo come scontate, stando all’estero si rivestono di pura consapevolezza. Ho girato gran parte dell’Irlanda e dell’Irlanda del Nord: ho visitato Derry, la Giant Causeway, Galway, Cork, la regione di Wicklow, ovviamente Dublino. Il rammarico è di non aver visitato il Donegal, ma è una buona scusa per poterci tornare in futuro.


Sei partito con una meta ed un obiettivo precisi?
No, onestamente no. Se non quello di imparare bene la lingua. E, come spesso capita quando hai poche aspettative, ottieni moltissimo da quello che poi ti ritrovi a vivere.

Come mai, poi, hai deciso di ritornare?
Diciamo che, quando parti scappando da qualcosa, poi quel qualcosa torna sempre a chiederti il conto. Ecco, sono tornato per saldare tutti i debiti con me stesso.


In che cosa ti ha cambiato questo viaggio?
La cosa più bella che mi sono accorto di aver avuto in omaggio da questa esperienza è che da allora non ho più dimenticato come si sente uno straniero lontano da casa, in un paese straniero, senza punti di riferimento, soprattutto all’inizio. Mi ha aperto molto la mente, mi ha fatto vedere la realtà dall’altro punto di vista. E da allora ho sostituito l’immagine dello straniero con quella del fratello, o del compagno di viaggio. Come dire, siamo tutti sulla stessa barca. Quindi aiutare il prossimo, anche in maniera disinteressata, è davvero un’esperienza unica, che consiglierei a tutti una volta al giorno!

Che cosa è, per te, il Viaggio?
Pe me è qualsiasi esperienza che può aiutarti a crescere e a capire chi sei realmente. A capire dove sta la tua gioia più profonda.


Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it

lunedì 24 settembre 2012

Il ritorno del giovane principe




Antoine De Saint Exupéry e Alejandro Guillermo Roemmers. Due scrittori che hanno inseguito le orme di un’infanzia capace di rivivere nel cuore degli adulti. «Il Piccolo Principe» riesce a sentire le stelle suonare «come fossero cinquecento milioni di sonagli». Anche quando cresce e, ormai adolescente, decide di tornare sulla terra. Si ritrova accasciato sul ciglio di una strada della Patagonia, in cattive condizioni per la stanchezza e la fame. «Fagotto dall’aspetto strano», lo definisce Roemmers. Ma un viaggiatore solitario nota i capelli d’oro e il corpo esile del giovane. Si ferma e lo soccorre, offrendogli la propria automobile come rifugio temporaneo. L’incontro diventa amicizia e i due, mentre girovagano, cominciano ad interrogarsi sull’esistenza e sulla quotidianità, sui valori e sui sentimenti. Proprio come accade nell’opera prima di Antoine De Saint Exupéry.

«Il ritorno del giovane principe» rappresenta una sorta di continuazione della storia pensata dallo scrittore francese morto nel 1944, mentre svolgeva delle missioni di ricognizione sul suo aereo. Dal 6 aprile 1943, anno di pubblicazione de «Il Piccolo Principe», diversi sono stati i tentativi di trovare un sequel al romanzo, divenuto famoso in tutto il mondo. Antoine De Saint Exupéry, alla fine del libro, parla dell’Africa e del deserto del Sahara come luogo di un possibile ritorno del bambino dai capelli d’oro. L’argentino Roemmers gli cambia l’età e lo fa approdare in Patagonia.

Resta il fatto che al centro dei due libri c’è un viaggio particolare, che non ha tempi né spazi. Quello nell’interiorità umana. Nei meandri delle sue tante domande. Nell’affanno dell’uomo che cerca traguardi tanto inutili quanto dannosi. Tutto, invece, è racchiuso nell’attesa semplice di un bambino capace di stupirsi davanti ai tramonti. Preoccupato per la sua rosa. Unica, rara e preziosa perché curata giorno dopo giorno. Il bambino che vuole dall’aviatore il disegno di una pecora e il giovane riverso sul ciglio della strada parlano un linguaggio che gli adulti potrebbero ancora comprendere. Se solo provassero a mettersi in ascolto.

Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it



giovedì 20 settembre 2012

Croazia, i dodici tramonti di Pola


Il mare di Pola
Apri il pc e ti volti: il cielo si sta esibendo in un nuovo numero artistico. Il tramonto è di quelli da fermare subito. Click. Intanto inizi a scaricare dalla digitale gli istanti che hai scelto nell’ultimo viaggio. Colleghi il cavo della fotocamera e torni indietro sfogliando i ricordi. Cammini, sono le sei del mattino, Pola sonnecchiando riprende il ritmo. Hai accompagnato una persona molto importante per te alla stazione dei bus. Mentre vedevi il pullman andarsene, hai iniziato a sentire un brivido di solitudine e libertà. Hai deciso: prima di tornare all'alloggio, ti saresti fatto trasportare dal flusso degli eventi. Le città, in base all’ora in cui vengono vissute, mutano. La luce dell’alba, sfumata di pesca, dà una morbidezza nuova agli edifici intorno. Dopo un cappuccino per buttar giù degli zuccheri e stare sveglio, muovi i primi passi fuori dalla stazione. Lo stupore nasce subito, lì vicino. Le pietre dell’arena romana sono rosa. Ieri, quando l’avevi visitata alle tre del pomeriggio, rifletteva una luce aggressiva che mandava in confusione. Ora l’arena è qui, mansueta, nel suo ovale perfetto, a mettersi in mostra vezzosa nonostante gli anni, a farsi fotografare. Sei sulla parte alta del pendio e di là, oltre gli archi, si vede il mare di un blu-verde misterioso. Prendi qualche respiro di iodio che va giù nei polmoni tesi. L'aria, con quel sapore, è la stessa che i gladiatori respiravano pensando all’esibizione della sera, che poteva essere un trionfo o l’ultima.

Anfiteatro romano sul lungomare di Pola
Dopo alcune foto appoggiando la macchina al parapetto, allo iodio si sostituisce un aroma di pane e brioches calde, appena sfornate. Sembri ipnotizzato da quel profumo, come un serpente che resta legato al flauto dell’incantatore, e lo segui senza opposizione. La sensazione di disagio che si era concentrata in pancia alla stazione si sta diradando. Da alcuni giorni cercavi la chiave per entrare nello spirito della città croata. Ora che l'hai presa alla sprovvista, lei ti sta mostrando una parte nuova, come accade alle persone. Annoti sul taccuino queste parole, forse l’inizio di una poesia: «Ogni luogo, ogni persona, ogni incontro o silenzio nascondono una porta che dà direttamente su dio». La parola Dio l’avevi scritta con la lettera maiuscola, ma c’è qualcosa che non va. La correggi subito in minuscola. Perché il dio che immagini tu, in quel momento, non è certo un anziano barbuto che ci guarda da una nuvola per punirci. No! Quel dio che senti è intorno, dentro di te, è amico, è dolce, è famiglia, radici, sorpresa, comprensione e dolcezza, è donna probabilmente, mamma: tutte cose che con la lettera maiuscola sembrano non andare d'accordo. Sul pc appare la foto della chiesa bianca, dietro l’arena, che hai raggiunto subito dopo, seguendo il serpentone d'aroma. Ti fermi lì un attimo, ti avvicini alla porta dell'edificio. Una donna all’interno prega guardando in alto, immobile: sarà qui da ore. Una suora, sull’altare, si muove laboriosa e mette a posto il necessario per la prima messa di giornata. In quello spazio, tra dentro e fuori, ti senti disorientato. Guardi all’interno. Pensi: dio dov’è? Lì dentro o qui fuori nel mondo? La stasi dura poco: saluti Gesù con l’occhiolino ed esci. Nelle viuzze di Pola, superato l’arco romano di Ercole, ti imbatti in persone che sono interessanti, eccentriche o solo normali: tutte porte di comprensione sulla bellezza della vita che ti fluisce intorno.

Ecco la foto della panettiera. Lei, con mani pazienti, con unghie turchesi, aveva impastato quella delizia di pane che diffonde profumo e calore. Sempre con quelle mani, mentre le rubo un’immagine, sta picchiettando sul telefono, sembra presissima. Alle sei del mattino a chi starà scrivendo? A chi starà pensando? Mi nota, mi segue per un momento con lo sguardo. Ma sono già via, sento un vociare confuso che viene di là. Hai l’arco romano dei Sergii sulla destra, poco oltre vedi un James Joyce di bronzo seduto al tavolino del caffè che spesso frequentava a Pola, nei suoi anni di insegnamento. Segui il rumore e decidi di andare a sinistra, lungo la via principale dei negozi, che stanno aprendo uno dopo l’altro. Incroci lo sguardo di una donna molto truccata, perfetta nel vestiario, con gambe lunghe e un’espressione rigida, lontana. Ne percepisci la maschera, la perfetta fragilità. Ti sbarazzi dopo un po' dei pensieri circolari che ti tengono ancorato a lei e di fianco spunta un uomo che vaga, molto più di te. Tu hai deciso di girare in quest’alba croata, lui va e basta, nello spazio, nel tempo, nella vita. Tiene una bottiglia di vino in mano, come un amuleto. E si dirige alla fontanella: si abbassa, si lava e con la destra non molla il suo scettro vuoto.

La statua di James Joyce nel centro della città
Finalmente ci sei, o ti ci sei trovato, è meglio dire: il mercato di Pola, alla fine della via, sta prendendo vita. Sembra di entrare in un mondo a parte. I mercanti hanno la loro ritualità nel disporre frutta, verdura, prodotti vari. C’è durezza e gioia, nei loro volti, c’è un po’ di Croazia qui, tra i banchi che mi scorrono a fianco. Le pesche che compro, tonde, sode, sfumate gialloarancio, sono un dono prezioso. Le banane schizzano agli occhi con il loro giallo accattivante e i bomboloni sono stati appena sfornati vicino quel banchetto giù di là. «How much are these?» chiedo alla ragazza che ha lo sguardo vispo già a quell'ora. «Seven Kuna each». Ne prendo tre: due alla marmellata di rosa canina, tipica della Croazia, e uno al cioccolato. Mi allontano, girandomi ogni tanto, fiero del mio tesoro in busta, assaporando le emozioni di un presente intenso: ognuna di esse è un numero in più della combinazione per aprire la porta, quella porta. Le tengo strette al cuore.

Tramonto dalla penisola di Verudela, Pola
Operazione completata. Tutte le foto sono scaricate sul pc. I file nella cartella si stanno aprendo, uno dopo l’altro, in piccolo. Così posso muovermi con la memoria avanti e indietro, a caso. Scelgo un tramonto: uno dei dodici che ho fotografato a Pola. Ogni giorno mi sedevo sul balcone attendendo. E ogni giorno fermavo la meraviglia sui pixel della fotocamera. Chiudevo il cielo, la sua essenza d'infinito, nello spazio di cinque centimetri per cinque dello schermo sul retro. Questa è forse la più bella delle dodici. Il sole scarlatto e arancio è per metà dietro la linea creata dal mare. Sono di nuovo là, seduto sul mio scoglio a forma di sedia. Attendo il silenzio che arriva portato dal ritmo ciclico delle onde nere. E nel silenzio intuisco che quel sole è la mia porta, personalissima, una delle tante che il viaggiatore incontra sul cammino: la porta sul segreto della vita. Mentre chiudo il pc, stacco i cavi, metto la digitale nella custodia, sento che il viaggio, ancora una volta, non mi ha migliorato né peggiorato. È stato solo un grande maestro: di quelli che permettono all’allievo, senza interferire, di tirar fuori le proprie emozioni e qualità per generare senso. Un senso più grande. 
  
Fabio Castano
castano.fabio@libero.it

martedì 18 settembre 2012

Abruzzo, tra Santo Stefano e Rocca Calascio alla ricerca dei gioielli di montagna



Rocca Calascio (Aq)
Qui. Dove cielo, nuvole e monti si confondono in un unico colore. Ad oltre millequattrocento metri d’altezza. Non posso fare a meno di fermare la macchina e di incantarmi di fronte a questo panorama. Mentre salgo verso Rocca Calascio (Aq), un arcobaleno spezza le sfumature blu cobalto. In lontananza piove e l’acqua rende le vette invisibili. La linea che divide mare e ovatta è diventata il mio orizzonte. Mi stringo nella felpa. Sono i primi giorni di settembre e la colonnina del termometro segna 15 gradi. La rocca non è lontana, ma i colori di questo tramonto scorrono fra i miei pensieri. Ho bisogno di carta e penna per non lasciarli sfuggire. Non riesco a descrivere le sensazioni che provo. Rabbrividisco, ma non per il freddo. Tutto sembra così bello da apparire irreale. Scrivo…

Calascio (Aq) - Il borgo antico
Le luci soffuse del paese cominciano ad accendersi. E immagino questi posti innevati, quando il silenzio indossa l’abito bianco. Vorrei essere qui in inverno, ma spesso non possiamo scegliere dove restare. Dipende dal biglietto che la vita prepara. La destinazione la conosce solo lei. Dopo un intero pomeriggio trascorso a Santo Stefano di Sessanio (Aq), su suggerimento di un amico aquilano mi dirigo verso la vicinissima Calascio (Aq). Ancora con la mente fra le viuzze di Santo Stefano, uno dei borghi più belli d’Italia, cerco di orientare lo sguardo e di trovare il centro storico. Non ci vuole molto, il paese è piccolo, conta circa duecento abitanti. Si può percorrere interamente a piedi. Le stradine intrecciano case e scalinate che conducono verso il borgo medievale. Domina il silenzio, quasi a voler fermare il tempo. Il sole spezza le nuvole e le sfumature creano un effetto strano sulle montagne. Sembra di assistere ad un’alba.

Chiedo indicazioni per raggiungere Rocca Calascio ad una signora che, insospettita da presenze estranee, si sofferma sulla soglia della sua abitazione. Mi consiglia di andarci in macchina, perché la destinazione non è vicina. Due o tre chilometri. Lungo il percorso, tutto in salita, incontro qualcuno che ha deciso di conquistare le altezze a piedi. Ne vale la pena, il panorama toglie il fiato. Da una parte, la linea invisibile del cielo taglia nuvole e luce. Dall’altra, un arcobaleno contende alle montagne lo sguardo dei curiosi. Sotto, il vuoto. La rocca è stata scelta come set cinematografico di film famosissimi, come l’americano «Ladyhawke» di Richard Donner. In effetti, il paesaggio si presta bene alla macchina da presa. Quassù parla solo la voce del vento. E l’eco rimbalza fra le vette del  Parco nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga.

Verso Rocca Calascio (Aq)
Rocca Calascio, costruita intorno all’anno Mille, è una delle più alte d’Italia. Mostra ai visitatori un torrione d’avvistamente quadrangolare e il castello, che domina la valle del Tirino e l’altopiano di Navelli. Un punto d’osservazione militare perfetto. I 15 gradi penetrano nelle ossa insieme al respiro dell’aria. Le rocce a strapiombo mettono i brividi. Mi siedo sull’erba, assaporando una insolita sensazione di libertà. Non ho voglia di scendere, nonostante il programma di fine giornata preveda una cena a base di lenticchie di Santo Stefano. In paese c’è la sagra dedicata ai famosi legumi e già nel primo pomeriggio l’aria sapeva di pentoloni bollenti.

Santo Stefano di Sessanio è un gioiellino di epoca medievale, costruito interamente in pietra calcarea bianca, opacizzata dal tempo. Il paese sembra un abito confezionato su misura dei turisti. Ogni angolo nasconde tesori da scoprire. Botteghe di antichi mestieri che invitano ad entrare attraverso profumi di agrumi e di lavanda, locali stracolmi di prodotti tipici. Il miele al caffè - squisito - offerto da un commerciante con la passione per le api. Il borgo antico contiene il cosiddetto albergo diffuso, camere in cui alloggiare sparse nel centro storico. E l’odore di vino buono del Cantinone, con il vecchio camino che richiama l’atmosfera natalizia in piena estate, non può passare inosservato. Il sisma del 2009, purtroppo, ha fatto crollare il simbolo del paese, la torre medicea. Molti edifici hanno resistito al terremoto perché i solai erano stati rifatti in legno per creare un albergo diffuso, opera dell’imprenditore italo-svedese Daniele Kihlgren.
  
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Il borgo antico
Mi lasco trascinare dagli odori e dai sapori della sagra dedicata alle lenticchie di Santo Stefano. Qualcuno spiega alla folla che il paese fa parte del distretto delle Terre della Baronia, insieme a Barisciano, Calascio, Castelvecchio Calvisio, Carapelle Calvisio e Castel del Monte. In questo modo il territorio conserva la sua identità, derivante dall’antica appartenenza alla baronia di Carapelle. È sera inoltrata quando rimetto in moto la macchina per tornare a L’Aquila. Mentre mi dirigo verso il parcheggio, assaporo ancora la zuppa di lenticchie accompagnata da quadratini di pane fritti. Nel bagagliaio appoggio ricordi e sensazioni della giornata appena trascorsa. In attesa di poterli rivivere nella scrittura.

Anna Maria Colonna 
annamaria9683@libero.it 

Lo stesso reportage si può leggere anche su L'Aquila blog (http://www.laquilablog.it/abruzzo-tra-santo-stefano-e-rocca-calascio-alla-ricerca-dei-gioielli-di-montagna/11421-0919/) e sul blog di Radio L'Aquila 1 (http://blog.rl1.it/?p=28809).
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Il borgo antico
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Il borgo antico


Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Il borgo antico
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Il borgo antico
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - La Torre medicea
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Il borgo antico





Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Posacenere nel borgo antico
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Tombolo


Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Il borgo antico
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Passeggiando nel borgo antico
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Rievocazioni medievali nel borgo antico



Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Nei locali del borgo antico
Santo Stefano di Sessanio (Aq) - Passeggiando nel borgo antico
Calascio (Aq) - Il borgo antico
Calascio (Aq) - Il borgo antico





Calascio (Aq) - Il borgo antico
Calascio (Aq) - Paesaggio al tramonto


Verso Rocca Calascio (Aq)
Rocca Calascio (Aq)
Rocca Calascio (Aq)




Paesaggio da Rocca Calascio (Aq) al tramonto
Rocca Calascio (Aq) - Arcobaleno









venerdì 14 settembre 2012

L'Aquila, pomeriggio in «zona rossa»

L'Aquila, «zona rossa»
L’Aquila. «Zona rossa», nel cuore del cuore della città. Tutto tace, tranne la pioggia. Penetra nelle crepe ben visibili sui muri dei palazzi. Si lascia tentare dalle finestre spalancate o senza vetri, da porte rimaste aperte chissà da quanto tempo. In questo angolo abbandonato del centro storico, l’erba continua a crescere fra le chianche delle strade. Le macerie, a distanza di tre anni dal sisma del 6 aprile 2009, sono ancora qui. Mostrano il «dietro le quinte» della ricostruzione. È il silenzio svelato da spazi chiusi al pubblico per via di una ferita troppo grande. La percezione dell'abbandono attraversa la pelle come l’acqua di un temporale di fine estate. Le impalcature si alternano ad edifici puntellati di sostegni in legno, immobili e muti. Sono stati messi in sicurezza, ma nessuno può attraversare la «zona rossa» senza il casco. I vigili del fuoco invitano alla prudenza e raccomandano di camminare al centro della strada. «Perché - dicono - qualcosa potrebbe ancora cadere». Fanno loro da guida nelle chiese frantumate dal terremoto e ancora chiuse in attesa di essere rimesse a nuovo. Ci vorrà molto tempo per restituire alla città i suoi pezzi di storia.


Pomeriggio in «zona rossa», i partecipanti
Siamo in tanti ad aver aderito a questo viaggio attraverso la zona più martoriata dal sisma. È stato organizzato nell’ambito del VI Congresso nazionale di archeologia medievale, ospitato a L’Aquila dal 12 al 15 settembre. E, in effetti, la maggior parte dei partecipanti è costituita da archeologi, architetti, studiosi. Appuntamento alla Fontana luminosa, caschi in testa e scarpe comode. Ma l’acquazzone ci sorprende quando il percorso è appena iniziato. Nonostante felpe, maglie e pantaloni siano inzuppati, proseguiamo il nostro cammino, lungo circa due ore. Prima tappa, la chiesa di Santa Maria Paganica, costruita nei primi anni del XIV secolo. Il sisma ha fatto crollare l’abside e l’intera copertura. L’interno è completamente occupato da sostegni e impalcature, ma l’acquasantiera solitaria che fiancheggia la porta d’ingresso parla di una devozione che ha compiuto centinaia di compleanni. Accanto alla chiesa, il settecentesco palazzo Ardinghelli.

L'Aquila, Duomo
I vicoli hanno registrato nelle pietre gli attimi del sisma. Le porte aperte di molte abitazioni lasciano intravedere massi e disordine. Alcune anfore sono cadute dal davanzale di un palazzo. Forse durante quella notte, forse dopo. Camminiamo tenendoci a debita distanza dagli edifici. Seconda tappa è il Duomo, nell’omonima piazza. Costruito nel XIII secolo, ha già subito i pesanti colpi del terremoto del Settecento. Attualmente è inagibile ed ha per copertura il cielo. Le piastrelle del pavimento fanno da «terreno» per alcune piante sbucate dal nulla. Il freddo penetra nelle ossa. Brividi dovuti alla maglietta inzuppata o a pensieri ballerini che si muovono davanti a queste immagini?

Santa Maria del Suffragio - La cupola senza cupola
La domanda rimbalza fra le pareti della chiesa di Santa Maria del Suffragio o delle Anime Sante, edificata nel XVIII secolo sempre in piazza Duomo. È la terza ed ultima tappa di questo viaggio nel cuore della città. Il terremoto ha causato il crollo quasi integrale della cupola. E il foro sul pavimento interno all’edificio ne è una conseguenza. Una parete provvisoria separa lo spazio aperto al pubblico da quello ancora inagibile.

Post-it lasciato sulla vetrina di un negozio
Le macerie non sono un’attrattiva turistica perché rappresentano la parte più intima del dolore degli aquilani. Camminare in «zona rossa» significa prendere coscienza di un dramma che non finisce dove comincia la ricostruzione. Alcuni edifici appartengono a tutti e non possono più raccontare la loro storia, se non per frammenti. È la storia di uomini e donne che sono nati e cresciuti qui. Di bambini e giovani che qui hanno visto il sole per la prima volta. È la storia di un amore per questa città lasciato scritto su un post-it: «L’Aquila bella me».
  

Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it

 Lo stesso reportage si può leggere anche su L'Aquila blog (http://www.laquilablog.it/laquila-pomeriggio-in-zona-rossa/11146-0915/) e sul blog di Radio L'Aquila 1 (http://blog.rl1.it/?p=28772).

Raduno dei partecipanti nei pressi della Fontana luminosa
Chiesa di Santa Maria Paganica - esterno



Chiesa di Santa Maria Paganica - esterno


Chiesa di Santa Maria Paganica - esterno
Chiesa di Santa Maria Paganica - interno




Chiesa di Santa Maria Paganica - interno

Chiesa di Santa Maria Paganica - interno
L'Aquila, «zona rossa»
L'Aquila, «zona rossa»



L'Aquila, «zona rossa»
L'Aquila, «zona rossa» - Abitazioni abbandonate
L'Aquila, «zona rossa»



L'Aquila, «zona rossa»

L'Aquila, «zona rossa»


L'Aquila, «zona rossa»
L'Aquila, «zona rossa» - Abitazioni abbandonate
L'Aquila, «zona rossa»
L'Aquila, «zona rossa»






Post-it «Amarcord» sulla vetrina di un negozio chiuso
Duomo - interno



Duomo - interno

Duomo - interno