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Manciate di petali
dal candore inebriante legano la Puglia alla Polinesia. Gruppi terroristici
vicini al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina stanno preparando
un incontro in una beauty farm di Lecce. Fra venti giorni metteranno all’asta
quindici ordigni nucleari di fabbricazione russa. Un pugliese ha fiutato il
business, creando i contatti e le «basi logistiche» perché tutto sia perfetto.
Marta
Caleari è la pedina indispensabile di questo «gioco» a mano armata. Un mazzo di
fiori di Tiarè, dedica invitante di uno sconosciuto dei Servizi segreti,
preannuncia il sapore dolceamaro della sua vacanza nel Pacifico.
Avvertii un intenso profumo che, per
fragranza, avrei saputo distinguere fra altre mille note profumate.
Incuriosita, annusai avidamente l’aria che ne era permeata. «Fiori di Tiarè,
signorina Caleari. In botanica, Gardenie Tahitensis. Crescono solo in terreni
vulcanici polinesiani, acidi e favorevoli al loro sviluppo. Sono bianchi, dall’aspetto
ceroso e sbocciano nelle ore notturne».
Marta non
sa, ma può. Lascia il lavoro da traduttrice nelle vie rugate del centro storico
di Altamura (Ba) - dove il bisnonno genovese si era trasferito ottant’anni
prima - per raggiungere il carezzevole sole di Tahiti. Vuole dimenticare nel
luogo stesso in cui tutto è cominciato. A luglio 2010. Con Marco. Con i fiori di
Tiarè. Con una vacanza. Il nastro si riavvolge e parte da zero.
La donna,
temprata dalla solitudine aguzza degli anfratti murgiani, racconta del suo
viaggio di trentasei ore. Bari, Parigi, Los Angeles e, finalmente, la stanza
313 con affaccio sul mare dell'isola polinesiana. Il programma prevede
spiagge deserte, palme inclinate al vento, pesci e barriere coralline, oltre ad
escursioni ed incursioni a Papeete, la capitale. Sogno barattato con
una pericolosa avventura. I programmi prevedono, la vita cambia a proprio
piacimento. Senza chiedere il permesso.
Enrico
Alberti, agente del Sisde, l’adocchia e la segue, facendo pervenire nella
camera dell’albergo dei fiori bianchi di benvenuto. Un incontro inaspettato e
schietto, necessario a chiedere alla ragazza di difendere il mondo dal pericolo
nucleare. Ago pungente e ago della bilancia per le scelte future della
traduttrice altamurana.
Marta,
incredula, si difende con il sarcasmo, ma resta imbrigliata nelle maglie
strette di una situazione irreale. Deve. Le sensazioni emergono, battendo a
ritmo accelerato sul tamburo della paura. Non ha mai visto uccidere. Ora gli
omicidi dormono nei suoi incubi, dopo aver macchiato di rosso le giornate di un
soggiorno apparentemente tranquillo. Momenti che sembrano «portare alla pazzia»
e che poi «fanno ridere fino alle lacrime».
Lucia Calia,
olandese di nascita, altamurana di adozione, dipinge con la penna un thriller
che trova nel viaggio origine e conclusione. La sua prima prova di scrittura
lascia con il fiato sospeso fino all’ultimo capitolo, colorato dal colpo di
scena. La descrizione dei luoghi è così pregna di dettagli fotografici da dare l’impressione
di una pellicola che scorre sotto gli occhi del lettore. L’autrice confessa a
Terre Nomadi «di non aver mai visitato la Polinesia», affrescata costantemente
nelle pagine del libro. «Le parole iniziali sono nate da uno shampoo ai fiori
di Tiarè», sorride. La storia, probabilmente, covava già da tempo nell’inchiostro
di una donna che, come Marta, ha saputo dare voce alla sua determinazione.
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