giovedì 7 novembre 2013

Il candore dei fiori di Tiarè

di Anna Maria Colonna
annamaria9683@libero.it

Manciate di petali dal candore inebriante legano la Puglia alla Polinesia. Gruppi terroristici vicini al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina stanno preparando un incontro in una beauty farm di Lecce. Fra venti giorni metteranno all’asta quindici ordigni nucleari di fabbricazione russa. Un pugliese ha fiutato il business, creando i contatti e le «basi logistiche» perché tutto sia perfetto.


Marta Caleari è la pedina indispensabile di questo «gioco» a mano armata. Un mazzo di fiori di Tiarè, dedica invitante di uno sconosciuto dei Servizi segreti, preannuncia il sapore dolceamaro della sua vacanza nel Pacifico.


Avvertii un intenso profumo che, per fragranza, avrei saputo distinguere fra altre mille note profumate. Incuriosita, annusai avidamente l’aria che ne era permeata. «Fiori di Tiarè, signorina Caleari. In botanica, Gardenie Tahitensis. Crescono solo in terreni vulcanici polinesiani, acidi e favorevoli al loro sviluppo. Sono bianchi, dall’aspetto ceroso e sbocciano nelle ore notturne».


Marta non sa, ma può. Lascia il lavoro da traduttrice nelle vie rugate del centro storico di Altamura (Ba) - dove il bisnonno genovese si era trasferito ottant’anni prima - per raggiungere il carezzevole sole di Tahiti. Vuole dimenticare nel luogo stesso in cui tutto è cominciato. A luglio 2010. Con Marco. Con i fiori di Tiarè. Con una vacanza. Il nastro si riavvolge e parte da zero.


La donna, temprata dalla solitudine aguzza degli anfratti murgiani, racconta del suo viaggio di trentasei ore. Bari, Parigi, Los Angeles e, finalmente, la stanza 313 con affaccio sul mare dell'isola polinesiana. Il programma prevede spiagge deserte, palme inclinate al vento, pesci e barriere coralline, oltre ad escursioni ed incursioni a Papeete, la capitale. Sogno barattato con una pericolosa avventura. I programmi prevedono, la vita cambia a proprio piacimento. Senza chiedere il permesso.


Enrico Alberti, agente del Sisde, l’adocchia e la segue, facendo pervenire nella camera dell’albergo dei fiori bianchi di benvenuto. Un incontro inaspettato e schietto, necessario a chiedere alla ragazza di difendere il mondo dal pericolo nucleare. Ago pungente e ago della bilancia per le scelte future della traduttrice altamurana.


Marta, incredula, si difende con il sarcasmo, ma resta imbrigliata nelle maglie strette di una situazione irreale. Deve. Le sensazioni emergono, battendo a ritmo accelerato sul tamburo della paura. Non ha mai visto uccidere. Ora gli omicidi dormono nei suoi incubi, dopo aver macchiato di rosso le giornate di un soggiorno apparentemente tranquillo. Momenti che sembrano «portare alla pazzia» e che poi «fanno ridere fino alle lacrime». 


Lucia Calia, olandese di nascita, altamurana di adozione, dipinge con la penna un thriller che trova nel viaggio origine e conclusione. La sua prima prova di scrittura lascia con il fiato sospeso fino all’ultimo capitolo, colorato dal colpo di scena. La descrizione dei luoghi è così pregna di dettagli fotografici da dare l’impressione di una pellicola che scorre sotto gli occhi del lettore. L’autrice confessa a Terre Nomadi «di non aver mai visitato la Polinesia», affrescata costantemente nelle pagine del libro. «Le parole iniziali sono nate da uno shampoo ai fiori di Tiarè», sorride. La storia, probabilmente, covava già da tempo nell’inchiostro di una donna che, come Marta, ha saputo dare voce alla sua determinazione.



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