Tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio. Portiamo con noi la casa della nostra anima, come fa una tartaruga con la sua corazza. In verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo è per l'uomo un viaggio simbolico. Ovunque vada è la propria anima che sta cercando. Per questo l'uomo deve poter viaggiare (Tarkovskij).
Sabato, al Westchester italian cultural center diNew York, guidato da Patrizia Calce, sarà inaugurata una mostra fotografica dal titolo Saints of Apulia. Il taglio del nastro è stato affidato ad un documentario, che permetterà ai visitatori di vagare tra le immagini, i colori e le musiche delle
celebrazioni sacre.
An evocative journey into apulian religious feasts.
Gli scatti - centoventi in tutto - immortalano i festeggiamenti religiosi e folkloristici di dieci città: Acquaviva delle Fonti (Maria SS. di
Costantinopoli), Adelfia (San Trifone), Altamura (Maria
SS. del Buoncammino), Bari (San Nicola), Bitonto (Santi
Medici), Fasano (Maria SS. del Pozzo), Novoli (Sant’Antonio abate, con l’accensione della focara), San Marzano (San Giuseppe), Scorrano (Santa Domenica), Taranto (San Cataldo).
Un progetto «itinerante» che ha l'obiettivo di rafforzare l'identità dei paesi coinvolti, rievocandone radici e tradizioni. Le immagini, frutto dell'attenzione e della sensibilità di alcuni fotografi locali, mescolano sacro e profano.
La mostra, curata dall'altamurana Maria Cristina Marvulli, fondatrice e
presidente dell’associazione Apulian Roots, è realizzata in collaborazione con
la United pugliesi federation di New York, presieduta da John Mustaro. Viene proposta sulla scia del successo di un'esposizione dedicata ai riti della Settimana santa in Puglia, allestita lo scorso anno da Marvulli nella Grande Mela insieme al giovane altamurano Enzo Bordo. L'evento registrò in pochi giorni un boom di presenze e di apprezzamenti.
Le fotografie resteranno a disposizione della curiosità del pubblico fino al 7 giugno. Colonna sonora: Taylor Davis, Wide awake
La penna si
aggroviglia nell’aria tiepida della primavera. Sembra un’imbarcazione che vaga
senza sosta in cerca di pensieri da dipingere. Ha voglia di viaggiare. Lo
sguardo la insegue con aria rassegnata e divertita, incurante di porti e porticcioli.
Nel frattempo, il valzer dell’inchiostro traccia note sulla tavola bianca
dell’alta marea, alla fioca luce di una lampadina. Chiaro di luna.
Improvvisamente
ritrovo i riflessi del mio volto nello specchio di uno spicchio d’acqua, sulla
sponda piemontese del Lago Maggiore. A farmi compagnia c’è Arona, cittadina «appoggiata
sul lago per caso». Scorci poetici disegnano il profumo dolce e intenso dei
fiori, stesi all’ombra del «tunnel di legno intrecciato con glicini secchi».
Ancora
profumo, ma fresco di stampa. Un familiare suono di carta traccia sentieri verso la vetta dell’Alpe Veglia, in Val
d’Ossola. E qui, «in località San Domenico, un paesino amato dagli sciatori, ti
fermi a mangiare polenta e cervo, coccolato dall’aria frizzante di
mezzogiorno». Un Genepy verde basta per riprendere il cammino, al ritmo lento del
campanaccio delle mucche.
Fiume Toce (Piemonte)
Lo
scrosciare dell’acqua riporta alla realtà. Sono sospesa sul fiume Toce, nel
punto in cui compie un volo di 143 metri. È «il bordo verso il nulla, il
confine che divide la tranquillità dalla caduta». Chiudo gli occhi e salgo sul
baleno. Destinazione, Certosa di Pavia, dove i monaci vivono ancora in silenzio
e in solitudine, dedicandosi al lavoro. «Il frate che ci guida, si ferma su un
piccolo rialzo. Ci spiega come il tetto del chiostro, un tempo, fosse ricoperto
di metallo e che, in epoca napoleonica, venne rimosso dall’esercito per farne
munizioni». Ogni passo dà vita ad una fame insaziabile. È fame di scoperta.
Il biglietto
mi conduce nell’Irlanda del Nord. Respiro a pieni polmoni il paesaggio della
Giant's Causeway, contea di Antrim, a quasi un’ora e mezza da Derry, la città del
«Sunday Bloody Sunday» cantato dagli U2. La natura mostra all’uomo la sua
perfezione. «Una parete intera, una specie di molo che si protende in mare,
formato da mattoni esagonali perfetti, uguali, finemente levigati».
Segovia
E mi
accoccolo nell’oscurità, «che ha già fatto accomodare Segovia tra le sue
braccia sicure». Il pullman impiega un’ora per coprire la distanza tra Madrid e
la regione della Castiglia e di Leon, tra i sobbalzi sull’asfalto filamentoso e
molle. Ancora una
pagina. La prima. «…che tu possa sempre viaggiare lontano. Con l’anima». Non si
può non andare lontano quando la penna di chi ha viaggiato ti prende per mano.
Partire, osservare, conoscere, scrivere, andare oltre e scrivere ancora.
Diventa una specie di droga di cui non si può fare a meno. Il mondo riempie a
tal punto l’anima da farla traboccare sul foglio bianco.
Fabio Castano
Fabio Castano ha raccolto in un libro, «Viaggi, sogni e altre bellezze», i reportage
di viaggio scritti tra il 2009 e il 2011, periodo in cui collaborava con la
rivista online «Il reporter». Siamo stati compagni di strada - insieme a tanti
altri - in quella meravigliosa avventura, condita con il sapore buono della
penna che osserva e fotografa. Esperienze che lasciano il segno.
Inevitabilmente.
Nella
raccolta ci sono i luoghi che l’autore ha visitato: Varese, Santiago, Orta,
Pola, Roma, Morimondo, Arcumeggia, Genova, Maastricht, Macugnaga, Pamplona,
Salamanca…
C’è la vita
dei luoghi. La vita nei luoghi. E c’è l’anima, quella vera, capace di farsi
sfiorare e percepire dagli occhi di chi sa vedere. Sin nel profondo.
Sono dieci e fanno paura. Si tratta degli aeroporti più spaventosi al mondo.Il sito di
viaggi airfarewatchdog.com ha pubblicato una lista per i deboli di cuore, soggetti a panico di fronte a decolli turbolenti o ad atterraggi poco morbidi.
Sea ice runway
Sea ice runway, Antartide
Questa pista di ghiaccio
è sterrata e potrebbe incrinarsi. Qualche anno fa i voli venivano annullati perché si scioglieva. I piloti sono stati invitati ad evitare atterraggi troppo violenti e a cercare di non affondare per più di 25 centimetri nel
ghiaccio.
Gibraltarairport, Gibilterra
La pista si trova accanto a
una strada principale che conduce in Spagna.
Aeroporto di Madeira, Portogallo
La pista corta costringe
gli aerei a fare una brusca virata all'ultimo minuto per evitare le alte montagne.
Juancho E. Yrausquin
Aeroporto internazionale di Ketchikan, Alaska (USA)
Pioggia battente, vento e la corta pista che fiancheggia le montagne rendono il decollo una corsa sfrenata.
Qamdo Bamda, Tibet
È
situato a oltre quattromila metri
sul livello del mare.
Narsarauq airport, Groenlandia
Forti turbolenze e il rischio di iceberg nelle
vicinanze rendono l’atterraggio difficile.
Juancho E. Yrausquin, Saba island, l’unico aeroporto
nell’omonima isola caraibica
Di solito, solamente i piloti
esperti riescono ad atterrare in questo aeroporto a causa dei
forti venti e delle montagne circostanti.
Matekane air strip
Kai Tak, Hong Kong
Chiuso nel 1998. Gli aerei erano costretti ad un volo molto basso su Hong Kong per raggiungere la pista di
atterraggio e dovevano fare una brusca virata per atterrare.
Eagle county regional airport, Vail, Colorado
(USA)
L’esperto pilota
David Cenciotti ha definito «impegnativi»
il decollo e l'atterraggio su questa pista corta, dalla ripida pendenza.
Matekane air strip, Lesotho, Africa
La pista si trova alla fine di un burrone di
montagna. Gli aerei, al decollo, sembrano cadere lungo il lato di una scogliera.
Roma. «Romeo e Giulietta - Ama e cambia il mondo» è diventato un
vero e proprio fenomeno, che continua a coinvolgere tutta l’Italia. Gente di
ogni età accorre da diversi paesi per assistere allo spettacolo.
«Questa è la settima volta che lo vedo», afferma, soddisfatto, un signore seduto tra le prime file del Gran Teatro di Roma.
L’emozione è palpabile. Sono le 13 e mancano più di due ore
all’inizio dello spettacolo, ma i fan sembrano già tutti pronti ad accogliere i
loro beniamini. Un gruppo di ragazze guarda ogni singola macchina che arriva
nel parcheggio, nella speranza che dietro quei finestrini si celi il volto di
uno dei protagonisti. Dopo la lunga attesa, le loro preghiere vengono esaudite.
Ed ecco che arrivano, con un sorriso raggiante, Silvia Querci (la nutrice),
Barbara Cola (Lady Capuleti), Roberta Faccani (Lady Montecchi) e, accolti da
una grande folla, Vittorio Matteucci (Conte Capuleti) con Giulia Luzi(Giulietta).
Tutti si fermano per scattare foto e firmare autografi. Pian
piano iniziano ad arrivare anche i ballerini, che vengono accolti con calore.
L’orologio segna le 15 e, finalmente, le porte del Gran Teatro si aprono al
pubblico. Le poltrone rosse sono lì, pronte ad ospitare grandi e piccini.
Le luci si spengono. Tra la folla, iniziano a camminare dei
frati completamente incappucciati. Sul palco, un enorme libro con su scritto
«Romeo e Giulietta».
Come disegnata in quello stesso momento, davanti ai nostri
occhi si delinea la città di Verona. «Nel cuore di Verona, teatro della storia,
la ruggine di un olio di cui non si ha memoria corrode senza pace». Due nobili
casate: Montecchi da una parte, dall’altra Capuleti. Dai due fatali lombi
sbocciano due fiori. Ragazzi che, alle grida, oppongono sospiri. Segnati dalle
stelle, andranno fino in fondo, lasciando scritto in terra «Ama e cambia il mondo».
Lo spettacolo ha inizio. È impossibile non rimanere
incantati dalla scenografia, che muta come per magia, dai meravigliosi costumi
e dalle spettacolari coreografie. È una vera e propria gioia per gli occhi. Il
pubblico diventa parte integrante dello spettacolo. Canta, ride e si dispera
con i personaggi. Sono rimasta senza parole nel vedere tutta la platea battere le
mani a ritmo e ballare la canzone «I Re del mondo». Mai vista una
partecipazione così appassionata da parte del pubblico. Il musical è un
continuo crescendo e si contano tante canzoni che fanno venire la pelle d’oca.
Comenon commuoversi
alla morte di Mercuzio o alle note di «Avere te», cantata da Vittorio Matteucci
a Giulietta? Il dolore di un padre che deve lasciare andare via la sua bambina,
ormai donna. «Avere te, bambina mia, un’altra me è già poesia […] sei frutto
dei vent’anni miei, maledirò gli amanti tuoi».
Il canto disperato di
Lady Montecchi e di Giulietta alla notizia dell’esilio di Romeo. La tragica
morte di Romeo e le ultime parole di Giulietta prima di suicidarsi: «Non
cercate di capire. Non chiedeteci di più. L’amore ci ha bruciati vivi, ma
restate al freddo voi quaggiù. Io muoio per lui, io muoio d’amore».
Fino ad arrivare alla pace tra le due famiglie,
rappresentate, durante tutto lo spettacolo, con due colori diversi, per mettere
in evidenza la contrapposizione e l’odio: rosso per i Capuleti e blu per i
Montecchi. Sarà proprio la morte dei due giovani innamorati a dissolvere
l’odio. Con l’ultima canzone, tutti sono vestiti di bianco, segno che la
contesa è finita. Le due madri si abbracciano, unite dal dolore per la perdita
dei loro figli. «Questa mattina è foriera di una pace che rattrista. Il sole,
per il dolore, non mostrerà la sua faccia. Alcuni saranno perdonati. Altri
puniti. Poiché non ci fu mai storia più pietosa di questa, di Giulietta e del
suo Romeo».
Uno spettacolo da vedere dal vivo. Emblema dell’emozione.
Viaggio indimenticabile nel tempo e nell’amore.
Curiosità
Adattamento italiano dal francese «Roméo e Juliette, de la
haine à l’amour» di Gérard Presgurvic, con la regia di Giuliano Peparini. Testi
italiani di Vincenzo Incenzo, produttore David Zard, che ha investito in questo
progetto circa 5 milioni di euro. Il cast conta 45 artisti sul palco, oltre 30 ballerini e
acrobati, 200 costumi disegnati da Frederic Oliver, una grande equipe tecnica -
per gestire l’allestimento scenico, di circa 500 metri quadrati - che
interagisce con i personaggi, muovendosi attorno ad essi.
Le mappe geografiche lo indicano anche come Santuario di
Gesù agonizzante. Non sono in grado di farne la storia in quanto mi mancano
elementi sufficienti, tuttavia mi piacerebbe sapere se sia sempre attivo, aperto
alle stesse finalità sociali ed educative, e in grado di offrire ancora
accoglienza alle famiglie. È ciò che oggi si dice turismo sociale e religioso,
e che io ho inventato 38 anni fa, data la conformazione della mia famiglia. Vi
ritornai, infatti, nel 1977, questa volta con la famiglia già formata. E per
tre anni di seguito trascorremmo lì la vacanza estiva. Era il tempo in cui
lavoravo a Roma.
A causa della nostra frequentazione di Casale Corte Cerro e
per la facilità con cui gli amici ricordavano la sede delle mie
vacanze in ragione della omonimia, un po’ per scherzo, un po’ per fantasia, mi
compiacevo nel dire che la vacanza la trascorrevamo nei nostri «possedimenti
d’origine» (se è vero, com’è vero, che dal dato topografico ci viene anche il
cognome).
A questo punto, qualche lettore un po’ superficiale o forse
annoiato (oppure severo?) potrà pensare che il mio esercizio di scrittura sia
solo una forma di esibizione, vuota ed artificiosa. Ma per rispetto nei
confronti di chi, una volta, mi confidò di trovare una certa godibilità nelle
mie scritture, andrò avanti. E persisto, sperando di riuscire a comunicare -
oltre alla godibilità - anche qualcosa che possa salvarsi come mera
informazione. E un poco poco, se me lo consentite (questa sì che è
un’ambizione, nel senso originario del termine: andare in cerca di consenso),
anche di pedagogia, di formazione, di educazione.
Perché dei miei soggiorni a Casale Corte Cerro non vi
parlerò se non in funzione di quella grande
opera pittorica che si vede sull’esterno dell’abside della chiesa, la
parte più importante dell’intera architettura. Solo mi dispiace di dovervela
presentare mostrandovi immagini da me fotografate, che avevo fatto per me, per
i ricordi di famiglia. Foto che, quando le scattai, non sospettavo di dover
esporre attraverso questo moderno mezzo di pubblicazione (che, all’epoca, era
inimmaginabile). Foto che, nel frattempo, hanno perduto la loro luminosità.
Ciononostante, sebbene incomplete nella esaustività della documentazione e poco
chiare nella loro visibilità, le offro come stimolo a più approfondite
curiosità verso la conoscenza, sia della storia, sia del valore estetico, sia
del destino futuro della costruzione.
Premesso che l’interesse culturale è diffuso con pari
intensità in tutte le parti dell’opera architettonica - nelle soluzioni
abitative della struttura residenziale, nell’arredo, nella concezione della
chiesa, in tanti particolari dell’arredo religioso, in tutti gli altri
manufatti sistemati nel parco circostante - qui intendo illustrare solo l’affresco
(forse è una tempera) che gira intorno alla grande parete cilindrica (l’esterno
dell’abside). Accoglie il visitatore e il pellegrino che si recano al
santuario, sul viale d’accesso alla casa: la passione del Cristo di ThéodoreStrawinsky (1907-1989).
Essendo esso quella che più mi colpì. E l’unico del quale
custodisco le foto.